“Vorrei che queste pagine si potessero prendere a etto, sfuse, a capitoli, a ognuno la parte che gli serve…” …questo dice Vinicio Capossela del suo libro di racconti e non sbaglia.
Ai libri di racconti non mi avvicino mai con grande interesse, io voglio vivere un romanzo… voglio affezionarmi ai personaggi, voglio che mi manchino un pò quando finisco di leggerlo. Questo l’ho scelto perchè adoro il cantautore Vinicio Capossela, ultimamente l’ho sentito molte volte dal vivo e volevo leggere e capire cosa ha da dire.
Il libro è strano, i racconti non seguono un filo logico preciso, la maggior parte di essi infatti sono slegati l’uno dall’altro ma non tutti, ragion per cui consiglio almeno una prima lettura sequenziale.
Personalmente ho trovato strepitosi i racconti che parlano del viaggio in Ex-Jugoslavia, quello di Ben, quelli scritti più col cuore, con quel linguaggio confidenziale e caldo, a tratti dolce, in cui Vinicio è un maestro.
Ho trovato invece irritanti, quasi illeggibili i racconti scritti in maniera roboante, con parole più vicine al declamato che al parlato, un linguaggio presente anche in alcuni suoi pezzi (che però amo, nei quali invece è necessario e perfetto), seppur ritengo degni di essere letti perchè pregni, come tutto il libro, di riflessioni, immagini e slanci incredibili del tutto caposseliani.
Per la cronaca ne ho saltato solo uno dopo 5 righe, troppo lontano da me.
E proprio per questo io ho trovato azzeccatissima la frase dell’autore con cui ho aperto questo post, alti e bassi, sterzate improvvise, discontinuità, poesia, filosofia profonda ma superficiale, a volte da bar sport altre da circolo letterario, questo è Capossela, vi piaccia o no.