Tutte le volte che mio malgrado è venuta meno una persona cara sono sempre stato assalito da quella sensazione di sfuggevolezza, di una fune che stai per afferrare ma vola via all’ultimo momento e tu cadi all’indietro, nel vuoto.
Ieri quando ho ricevuto la notizia da mio padre di nuovo, forte, quella sensazione che scaturisce dal fatto che mi accorgo di aver passato troppo poco tempo con il mio unico zio, che come tutte le vite è un universo, che non sono mai, ultimamente, andato a trovare per passare qualche ora con lui. Per farmi raccontare com’era la guerra secondo lui, com’era fare il garzone del barbiere a Castelnuovo, di come ha conosciuto mia zia, di cosa provava quando partiva per la Germania per andare a lavorare lasciando tutti qui per parecchi mesi all’anno.
La sua figura è unica e indimenticabile, sempre in giacca e cravatta, sempre pettinato, fisico asciutto, un personaggio moderno, simpatico ma dall’aspetto di un’altra epoca, sembrava uscito da un film in bianco e nero con Humphrey Bogart. Avrei voluto accompagnarlo “a dar da mangiare ai cani”, solo per vedere se metteva la cravatta anche in quelle occasioni.
Non ho un solo ricordo particolare, porterò sempre con me il suo sorriso che accompagnava perennemente il suo volto magro, la sua voglia di scherzare, il suo spirito che lo contraddistingueva che non l’ha abbandonato anche nei momenti più bui della sua vita.
Voglio portare queste cose di te con me zio perchè anche se non sono mai riuscito a dirtelo tutte le volte che ho ascoltato la canzone di Paolo Conte, quando diceva che “solo il nipote capisce lo zio” ne ero fermamente convinto.
Addio, zio, ci vedremo di là.

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