Born In The USA – Bruce Springsteen (1984)
A quattordici anni cosa potevo aver ascoltato? Beh… ai tempi quello che passava il convento. Un pò di Beatles, un pò di Dylan, The River e poco altro che val la pena di menzionare, eccetto tanto jazz che non amavo e non amo ancora oggi; ero già stato, tre anni prima al concerto di Bob Marley a Torino di cui ricordo solo le collanine fosforescenti ma fino a quel disco con la bandiera americana e i jeans in copertina la musica per me era solo un sottofondo.
Born in the USA invece mi fece capire la forza che può avere la musica, cosa può smuovere un pezzo d’amore, cosa succede al corpo umano quando ascolti una canzone che ti fa venire l’irrsistibile voglia di muoverti.
Ricordo le prime feste tra amici al liceo in cui, addetto o aiutante al mixer mi mettevo il singolo omonimo per poi ballare pugno in alto come il Boss, un poco timidamente tra le probabili risate dei già fighetti di allora che magari ascoltavano Limahl.
Devo ringraziare il socio di mio padre che lo traviò con quel disco e che mi spacciò una prima cassetta che consumai subito con un registratore non stereo e improbabile, ora però lo confesso: non lo ascolto più da anni ma è dentro di me.
Raising Hell – Run DMC (1986)
Sapevo già cos’era il rap un pò grazie alla mia nascente passione per il DJ-ing, un pò grazie a Radio Deejay e a Lorenzo (mitico il suo “1, 2, 3 casino!” e i suoi grandi ospiti) e un pò grazie alla notorietà che la parte più commerciale di esso aveva in Europa in quegli anni, ma non avevo avuto ancora il coraggio di affrontare un album intero, forse lì per lì non ci credevo nemmeno io poi…
Poi una canzone con un titolo che parla da solo “Walk this way” e ho fatto il piccolo grande passo che sarebbe venuto comunque, lo so, ma voglio che sia Raising Hell a sancirlo perché so che è un album che non ha cambiato solo la mia vita.
Sentivo che la cultura hip hop e il rap più ancora, rappresentava meglio di ogni altra cosa me, la mia anima ribelle ma attenta in parte anche all’involucro, la parte emarginata di me, forse della mia vita precedente, la mia dimensione che mi porta a sentire il bisogno di questa musica ancora oggi come dell’aria che respiro. Lo sento così vicino al mio modo di essere perché è in continua evoluzione, perché riesce a mantenere il giusto distacco dalla realtà, perché non è solo un genere musicale ma parte di una cultura più ampia volta ad unire le persone.
Dopo Raising Hell ho ascoltato poi di tutto, West Coast ed East Coast, old school e new school, straniero e italiano evitando però accuratamente l’era delle posse che, a mio parere hanno usato il rap, privandolo di quello che a me fa impazzire del rap, il saper prendersi sul serio senza prendersi sul serio, il lato festaiolo che lo pervade.
Un rapper ti manda affanculo e tu pensi che ti abbia fatto un complimento, ti dice che ti ama parlandoti di Hermès o di Herman Hesse, la politica?
Come dice DJ Skizo: “L’hip hop è una cultura che non sta né a destra né a sinistra, sta nella realtà di chi se la vive“. Definitivamente.
Music For The Masses – Depeche Mode (1987)
Solo tre anni dal Boss. Quante canzoni passarono nelle mie orecchie in questo periodo? Un milione almeno. Un milione di dodici pollici che in quegli anni mi guidarono per tutto il panorama commerciale e non ma ricordo che in quella miriade di mix e remix quelli dei Depeche Mode mi piacevano sempre particolarmente, avevano un ‘di più’ incomprensibile. Alla luce di ciò quando uscì questo disco lo comprai a scatola chiusa e subito capii quel di più… e fui ‘Devoto’ per sempre.
Se metto MFTM nello stereo (e lo faccio spesso) ripiombo in quei sabati pomeriggio, dopo scuola e pre-weekend, per quello che i weekend significavano per un diciassettenne allora: giostre, se c’erano, al sabato pomeriggio e domenica in giro. Di sera non si usciva.
Di ‘Music for the masses‘ mi colpirono il trasporto dei suoni, le atmosfere, l’elettronica al servizio del cuore e, soprattutto, la sensualità di ogni canzone di quell’album, cosa che ritrovai anche in quasi tutti gli altri pezzi scritti fino ad allora dai ‘miei ragazzi’.
Quelli successivi poi non fecero altro che trasformare una passione in una sorta di religione e a farmi capire, come un giorno mi scrisse la mia amica Alice, che… “la musica dei Depeche Mode non è altro che una sublime forma d’arte“.
CRX – Casino Royale (1997)
CRX per la mia vita è stato il disco della svolta vera, il disco di quando sono diventato grande, il disco che non puoi ascoltare giocando a Subbuteo, il disco che accompagni volentieri con una canna, il disco che ti fa capire che là fuori c’è vita vera e tu quella fottuta vita vuoi viverla, vuoi sbatterci la faccia, oltre che quello che mi ha fatto conoscere questo gruppo che ormai fa parte di me e della mia vita almeno quanto i Depeche Mode; per quanto i Casino Royale rispetto ai 4 di Basildon, per la loro dimensione li sento molto molto più vicini, fisicamente e mentalmente.
Erano gli anni dell’università, quelli che personalmente mi hanno cambiato più di tutti gli altri, di trip-hop e di musica più impegnativa ne avevo già sentito parlare, ascoltato frammenti, ma il disco che mi ha introdotto a tutto questo fu CRX. Prima dei Massive Attack che ascoltai dopo, prima dei Portishead, prima degli Almamegretta di Lingo.
CRX mi ha portato via anima e corpo, i testi, quei campionamenti arditi, quelle basi torbide, quelle atmosfere nebbiose da lampioni e coni di luce gialli, la voce del King in contrapposizione a quella di Alioscia, “Io rifletto“… cazzo ho la pelle d’oca, potrei ascoltarlo in loop fino alla fine dei miei giorni, questo che oltre ad essere stato il disco della mia svolta considero un disco dal sound eternamente attuale.
Al concerto degli U2 di Reggio Emilia, un ubriaco in mezzo a centomila (davvero eh!) persone alla fine del set dei Casino Royale ebbe il coraggio di urlare “Fanculo agli U2 noi vogliamo i Casino Royaleeeee!“… ecco ero io, sono ancora vivo e per me il ‘Treno per Babilon‘ era partito e ancor oggi non ho nessuna intenzione di scendere, anzi, guai a chi lo ferma!
Casino Royale presents: Royale Rockers – The Reggae Sessions (2008)
Ricordo una frase di Roberto, il mio consulente musicale personale, che mi disse: “chi entra nel vortice del DUB non ne esce più, ne conosco altri a cui è capitata la stessa cosa”. La mia vita ancora una volta sconvolta dal fenomeno Casino Royale, l’ennesima dimostrazione che la mia vita scorre parallelamente alla loro esperienza musicale o meglio, si lascia influenzare liberamente dalla loro ispirazione.
‘The Reggae Sessions‘ mi ha aperto le porte ad un mondo infinito, a sensazioni inconsuete, mi ha fatto battere il cuore in levare come nemmeno quel concerto di Bob Marley fece, quasi trent’anni prima, un seme in un terreno ancora arido. ‘The Reggae Sessions’ come punto di partenza, di ripartenza, da Lee Scratch Perry a Horace Andy (toh, lo conoscevo già!) da Mickey Dread, presente nel disco, alla scena Dub italiana, D-Rad, i B.R. Stylers, gli Africa Unite.
‘The Reggae Session’ un disco non completamente nuovo nella sostanza, nato forse per gioco, per sperimentazione ma capace si trasmettermi tanto, di portarmi lontano, più lontano forse di tanti altri dischi più pensati e più ispirati probabilmente. Ma questo è il bello di ‘The Reggae Sessions’, io sapevo che esisteva il Dub, quante Dub versions di quanti remix mi sono mai passati tra le mani, ma nessuno come i Casino Royale mi aveva preso quelle mani per portarmi dentro il Dub, nessuno mi aveva detto che era nato lì, che il reggae, quello delle radici fu il primorde, era da lì che poi nacque tutto, dal Boss, a Dave, Martin Alan e Fletch, a Neneh, a Joseph “Run” Simmons, Darryl “DMC” McDaniels e Jam Master Jay. Che Dainamaita, Sempre più vicini e CRX forse, senza quelle radici non sarebbero stati gli stessi o forse non sarebbero stati proprio.